Tanto è stato detto e scritto sull’ emergenza coronavirus, per giorni e giorni le pagine dei giornali e le trasmissioni televisive hanno informato i cittadini sulle precauzioni da prendere e aggiornato sui dati relativi alle persone colpite, ma per un medico, impegnato “ sul campo”, si è trattato di un vero e proprio stress che ha coinvolto soprattutto la sfera affettiva oltre che quella
professionale.
Tornare a casa dal servizio e non poter abbracciare i propri figli e la propria mo- glie, restare isolato prima di conoscere l’esito delle analisi del paziente soccorso…
Nel mio percorso professionale spesso mi è capitato di intervenire su situazioni molto critiche, ma con l’esperienza e l’uso dei protocolli non ho mai perso il controllo, perché sapevo che cosa fare anche se un nemico invisibile e soprattutto alieno, in quanto nuovo, come il Covid 19 mi ha messo alla prova ; in questa emergenza mi sono sentito, a volte, impotente perché non avevo gli strumenti adatti per intervenire non per carenza del sistema ma perché la situazione clinica dei pazienti era veramente complessa e di difficile gestione sul territorio, non ero neppure aiutato dai movimenti perché l’abbigliamento indossato, i D.P.I., non mi aiutava certa- mente… Ma la cosa più sconvolgente è stata quella di non poter “toccare” la persona colpita, di doverla visitare con il viso coperto e , soprattutto, di doverla portar via dai suoi affetti, da so- la senza il conforto di una persona cara vicino.
Rispetto ad altre realtà, posso dire che la nostra zona è stata , in un certo senso, abbastanza “risparmiata” dal coronavirus e per questo mi sento in dovere di ringraziare i cittadini, che han- no rispettato le regole messe in atto dal Governo e che hanno contribuito a salvaguardare, ol- tre alla loro salute , anche l’incolumità degli operatori sanitari di cui faccio parte.